Gli anni giovanili)
La vita artistica di Mario Salis inizia nella seconda metà degli anni Settanta, a Roma. Lui, di anni, ne ha ventuno, e sono i tempi eroici della contestazione. Nel 1977 e nel 1978 ogni giorno accade una cosa strana: alle cinque del pomeriggio le piazze del centro della Capitale – Campo De Fiori e Farnese, Santa Maria in Trastevere ma soprattutto piazza Navona – si popolano di giovani contestatori zazzeruti e variopinti. I sagrati delle antiche chiese, le panchine, le scalinate, le fontane, tutt’a un tratto vengono invase da capannelli di ragazze e ragazze, per lo più estremisti di sinistra, armati dei loro testi sulla Rivoluzione, o di semplici vagabondi hippies dediti al culto pacifico della ganja, che si appostano e stanziano nei luoghi elettivi dell’Arte Sacra e del Barocco fino a notte tarda.
Mario arriva anche lui ogni pomeriggio a piazza Navona ma, anziché il chilum o i libri di Lenin, si porta la chitarra acustica. Si piazza sopra una pankina davanti all’Ambasciata del Brasile e suona le sue canzoni per capannelli eterogenei di ragazzi che si adunano, si siedono per terra in cerchio, attirati dalla sua bravura e dalla sua originalità. A dispetto della giovane età, ha già una personalità artistica compiuta. Esegue solo canzoni sue, in italiano, con una vocalità chiara e diretta, con perfetta padronanza della sillabazione e la potenza evocativa dei suoi testi. La sua scuola è Bob Dylan, nell’unica fonte allora reperibile, il mitico “Blues, ballate e canzoni”, libro con l’introduzione di Fernanda Pivano e le traduzioni pirotecniche di Stefano Rizzo, strumento editoriale seminale, che permette la conoscenza e la diffusione fra i giovani cantautori di casa nostra della forma poetica detta “catena di immagini fiammeggianti”, cifra stilistica della Beat Generation, che trova la sua forma più compiuta in Dylan. Ci sono delle immagini nelle canzoni giovanili di Mario che lasciano tuttora di sasso, testimonianze di un vecchio vagabondo già disincantato a 21 anni, dagli occhi sinceri e duri quanto basta:
“E ho visto pure i gabbiani / sgozzare al buio dei pesci..”
“Ed ho ucciso un “gangester” del cine ad una messa sepolcrale..” (con la parola gangster pronunciata in romanaccio arcaico: “gàngester”)
Come semplice artista di strada, da vero e proprio folksinger, nel 1978 Mario Salis ha già piazzato uno dei suoi brani più affascinanti per la colonna sonora del film-documentario di Comencini “L’ingorgo”: si tratta della mitica – dylaniana fin dal titolo – “Nella canzone del male / momento 25 bis”, che inizia così:
“Questa è la storia di un uomo di strada
che donava le chiavi del bosco
ed il suo fiato
per un abbraccio..”.
C’è un’antica diceria su piazza Navona (cito dal Lorenzetti – Emiliani, “Storie de noantri”, 1994):
“Se si pensa alla tradizionale Canzone Romana ci si imbatte in una produzione copiosa di descrizioni particolareggiate, amorosamente coltivate dagli autori storici – i Balzani, i Fabrizi – sui quartieri, sulle piazze, sulle zone tipiche del milieu capitolino. E’ tutto un florilegio di inni ai fiori e alle dolcezze femminili del rione Monti, di bellezze che vengono giù dal Gianicolo, e le casette di Trastevere, e la sublime piazza di Spagna, e c’è una canzone partigiana che cita il colle del Quirinale, e poi Venditti ha cantato Campo De Fiori, e addirittura del luogo più aborrito dai romani – luogo di perdita della sacra Libertà: – il carcere di Regina Coeli, esiste un intero canzoniere a disposizione di filologi, etnomusicologi ecc.. Possibile che in tutta questa dovizia vanvitelliana non esista una vera canzone che parli di piazza Navona? Perché? La diceria vuole che sull’Obelisco della fontana dei Quattro Fiumi ci sia incisa una maledizione. Di sicuro piazza Navona aveva questo, storicamente, di suo: che era il luogo dove un tempo veniva eretta, e messa in funzione, la Forca. C’è sempre stato, riguardo a piazza Navona, una sorta di tabù culturale, un non detto, un blocco pre-intuitivo. Il ventre scuro, per quanto – e quanto! – magniloquente, della Città Eterna, il suo scheletro nell’armadio. C’è oggettivamente un lutto da elaborare da parte della cultura romanesca nei confronti di questa piazza incredibile, ombelico del mondo, luogo di accoglienza delle anime degli antichi impiccati, che si reincarnano e in eterno ritornano, travestiti da ladri e da barboni, da strimpellatori strambi, da giocolieri o da semplici matti, per vendicarsi pacificamente, con la loro immacolata presenza, dell’antico destino atroce, ora che i tempi sono mutati, ora che la maledetta Forca, a piazza Navona, non c’è più.”
Ebbene, l’autore dell’articolo non sapeva che questo vuoto è stato colmato, che questo lutto è stato elaborato, e il merito di ciò è di un ragazzo romano, originario della sacra isola di Sardegna – Mario Salis – che per primo, nel 1978, lancia ad alta voce la sua sfida alla maledizione dell’Obelisco, componendo e suonando, davanti a gruppetti di freaks catartizzati, i versi della sua “Piazza Navona”:
“A piazza Navona si fanno le feste
dal tempo di Domiziano, dal medioevo,
al fu Campus Agonis, tra il Moro e il Nettuno,
la cuccagna romana ha sempre imperato,
e l’ubriacone di piazza Navona
ti chiede dei soldi, per poi riderci sopra...
Ed incontri un ragazzo che attraversa la strada
per lunghe 3 ore, per non essere solo…”
Così, con tali aperture di senso, Mario Salis e la sua chitarra facevano breccia nella testa e nel cuore degli giovani navonari alla fine degli anni Settanta. E non si può parlare delle sue canzoni “storiche” senza citare la pazzesca “Sulla strada di Ginevra”, invettiva surreale dalla scansione ossessiva, basata sul passaggio triadico degli accordi di “You ain’t going nowhere” di Dylan:
“Sulla strada di Ginevra ho venduto una canzone
ad un uomo di cartone, che la dedicò al suo amore.
20 franchi per cantare, nei bistrot ad elemosinare,
una città finalmente seria, ricca di spirito e di miseria.
Una miseria non d’argento ma di poesia e di tormento,
ricca di falsi scambi umani, ricca di numeri sociali.
Ricca di gente con una nuova divisa, ricca di una povertà infinita,
ricca di gente con una nuova divisa, ricca di una povertà infinita”.
Nei sui anni giovanili, da vero e proprio busker – anche se non chiedeva soldi – Mario Salis ha affinato la sua cifra stilistica, è diventato uno stregone del simbolismo e – come tutti gli intercettatori non decerebrati dell’insegnamento dylaniano – ha acquisito la dote della Profezia, che consiste nel decrittare un mondo invisibile ai contemporanei, ma perfettamente comprensibile alle generazioni a venire – come si vede bene dai versi visionari di “Sulla strada di Ginevra”, che solo oggi, ex post, 33 anni dopo – parlando di “nuove divise” e di “povertà infinite” – siamo in grado di comprendere davvero.
(Il Mito)
Un proverbio persiano dice: “Se vuoi che il tuo vero valore sia riconosciuto muori, oppure parti per un lungo viaggio”.
Nel 1981, mentre il movimento eroico degli anni Sessanta-Settanta implodeva, degenerando, per il suo lato politico, nella masturbazione parolaia e nel terrorismo e, per il suo lato hippie, nel misticismo e nell’eroina, Mario Salis decide di trasferirsi in Francia, a Metz in Lorena, insieme alla sua compagna italo-francese e futura moglie Mara Pinzi, dalla quale avrà due figlie incantevoli.
Con questa partenza improvvisa e irreversibile – un taglio netto con il passato – con questa scelta di vita drastica e coraggiosa, Mario ottiene involontariamente un risultato importante: crea, intorno alla sua figura artistica, il Mito.
La piazza Navona degli anni Ottanta non è più il ricettacolo delle orde hippie-extraparlamentari, che si sono dissolte, ma rimane pur sempre, anche in pieno craxismo e reaganismo, un luogo di resistenza culturale. I giovani musicanti di strada, quelli che si esibiscono davanti alle terrazze dei bar e dei ristoranti della piazza, e poi passano tra i tavoli con il cappello, cantano e ricantano le canzoni “del Salis”, e le insegnano anche ai più giovani, ai tanti ragazzi che ancora, ogni sera, vengono sulle panchine a suonare e a cantare in coro per puro divertimento, per fare conoscenze nuove, per rimorchiare le turiste: passando vicino a uno di questi crocchi affollati e ridanciani nel 1985 o giù di lì, sentivi sempre 4 o 5 chitarre e una mezza dozzina di voci che intonavano brani di Dylan, di Springsteen, dei CCR, di Jakson Browne, di De Gregori inframmezzati dai “classici” del Salis: “Nella canzone del male”, “La noia”, “Sulla strada di Ginevra”, “Piazza Navona” ecc..
Tutto ciò avviene all’insaputa di Mario stesso, che vive in Francia, e ha interrotto i rapporti con Roma e con la piazza: un silenzio che dura un decennio intero (internet non esiste ancora).
Intorno al 1990, con una serie di brevi viaggi in Italia, insieme a Mara e alle piccole Diana ed Elisa, il Salis si riaffaccia a piazza Navona e riallaccia i contatti con le nuove leve musicali e con le nuove realtà del busking romano. E – ciò ke più conta – porta le sue canzoni più recenti. C’è tanto lavoro e tanta bellezza fra le righe della sua nuova produzione. C’è la davvero epocale (visto l’esodo dai paesi dell’Est e del Sud del mondo, che proprio in quei giorni cominciava a manifestarsi come fenomeno di vastissime proporzioni) “Evviva gli emigranti”:
“Vanno a vedere quanto è furba la vita,
vanno in fondo a una strada buia, cieca e infinita,
con due soldi di carta e una corda tra le dita…”.
Le nuove canzoni ci impiegano pochissimo a divenire a loro volta dei classici “del Salis” e a entrare in pianta stabile nel patrimonio dei busker romani. Tra le tante, è d’obbligo citare la stupefacente “Loro come me”:
“Eccoli, perduti, ancora sbandati per troppa onestà,
fanno i ricercati, fanno i barboni ad ogni età,
orologi non avranno mai al polso né occhi di marmo,
loro fanno affidamento a un tessuto di cielo l’inverno…
“… Non dirmi che non lo sai:
ci sono uomini uomini uomini
che non si arrendono mai!
Non dirmi che non ci sei!
Questi uomini uomini uomini
siamo noi”.
O ancora la ballad giocosa – ma venata di nostalgia – sulla vita vagabonda e sugli scrupoli del distacco e del rimpianto – la dolce “Au revoir”:
“Au revoir, mia dolce bella signorina,
i don’ know my little baby, i don’t know, i don’t know...
Au revoir, mia dolce bella signorina,
vado per le vie del mondo,
il cuore in gola,
a cercar fortuna”.
In uno dei sui viaggi, si presenta con una canzone scritta e dedicata apposta ai musicanti di strada di Roma, e soprattutto ai suoi amici più fidati: i busker di piazza Navona. E’ un gioiellino sapido e spassoso dal titolo “Mandolino man”.
Intanto – è il 1990 – dall’humus artistico della piazza nasce l’associazione “Stradarte”, che durerà quattro anni ma che avrà un’importanza cruciale (sebbene a tutt’oggi del tutto ignota ai canali ufficiali di quella che Adorno definiva “industria culturale”, e al relativo indotto informazionale) per la libertà, e direi anzi per la stessa esistenza, dell’Arte di Strada in Italia.
Una legge di epoca fascista (l’articolo 121 del famigerato Codice Rocco, del 1931), passata incredibilmente indenne sia al Sessantotto che al Settantasette, e dunque ancora vigente nel 1990, faceva divieto a chicchessia di praticare ogni tipo di forma artistica nei luoghi pubblici. Per tutti gli anni Ottanta molti vigili urbani di Roma si guadagnano lo stipendio perseguitando e vessando i busker con multe da mezzo milione di lire e col sequestro degli strumenti. Tutti gli artisti storici della piazza subiscono diverse volte questo trattamento assurdo. E poiché le multe e i sequestri non vengono inferti solo ai busker professionisti ma anche ai semplici dilettanti, a quelli che vengono a suonare la sera in piazza per puro divertimento, dall’unione di queste due anime del busking romano prende vita l’associazione Stradarte, baluardo dei diritti dell’arte itinerante, che con tutta una serie di iniziative eclatanti, di cui le tv e i giornali parlano in abbondanza – con titoli come: “La gente si ribella ai vigili e prende le parti del menestrello!” – riesce a ottenere la presentazione di ben due disegni di legge, in deroga all’articolo del codice Rocco, e a farle discutere e approvare dal Parlamento. Le due proposte – che poi furono accorpate – portavano la firma, rispettivamente, di Francesco Rutelli e di Nichi Vendola.
Nell’ottobre 1992 l’associazione Stradarte decide di festeggiare la vittoria con un mega raduno proprio a piazza Navona, luogo elettivo dell’arte di strada. Ci sono: un palco enorme, un’amplificazione megagalattica e un impianto luci pinkfloydiano. E la guest star della serata è proprio lui – Mario Salis – autore simbolo della causa busker, che esegue il suo concerto davanti alla piazza stracolma, a suggello di una stagione di lotta felice, che ha significato un salto in avanti davvero epocale per le sorti della libertà artistica e della bellezza espressiva nel nostro imbarazzante paese.
(La maturità)
Intanto, in Francia, Mario porta a termine un fondamentale percorso formativo in ambito accademico, che ne fa, oggi, uno dei musicisti più colti e preparati dell’avanguardia musicale europea:
1986: consegue a Parigi la Laurea in etnomusicologia con una tesi sulla musica popolare sarda;
1986: riceve la Medaglia d’Oro al Conservatorio di Metz in chitarra classica (musica da camera);
1990-1994: segue i corsi di composizione, contrappunto, armonia e musica contemporanea con Claude Lefebvre, della scuola di Darius Milahud e di John Cage;
Compone due opere per voci – soprano, alto, tenore, basso – e orchestra, dal titolo “La leggenda di Horus” (2003) e “Aria” (2004).
Ma il suo amore per la canzone d’autore, per quella forma espressiva capace di coniugare, secondo stilemi creativi mai banali e mai commerciali, la poesia con la melodia e l’armonia, rimane nel suo dna compositivo come una stella polare, come punto di riferimento esistenziale. Così, nel corso degli anni, Mario partorisce diverse opere e collezioni che si sostanziano in 3 dischi ufficiali.
1999: “NEXT UP”
E’ un disco profondamente religioso, ma di una religiosità eretica e dialettica (“Il tempo verrà”, “My Lord” e “Uomini di cenere”, con la bella voce di Vivianne Moscatelli, che è un blues di denuncia in 6/8: “Parolieri da strapazzo / alzano i loro bicchieri”), con un’attenzione lucida alla inebriante naturalità dei luoghi (come in “Terra di frontiera”, ballata a distesa, portata dal maestrale e dedicata a Trieste: “L’inverno è come l’autunno / non piove mai a Capodanno”), e vividi spazi intimisti (“Nevi calde come stelle”, “Non più lacrime”), senza mai rinunciare a una sana dichiarazione di appartenenza al filone di protesta della rock-song (“Hey babe”) e della folk-song, con “Proprio come i blues d Woody”:
“… hanno nel cuore una spada e una lingua feroce,
sono loro che hanno ammazzato sepolto deriso ingiuriato
e ora parlano
parlano
parlano
di chiesa e di stato…
E fanno una vita da schiavi, in testa solo progetti,
per avere sempre e solo il potere, costi quello che costi,
e sparano
sparano
sparano in nome di dio…”
O ancora il sospiro accorato, straziante e sublimativo, per l’amato fratello minore, prematuramente scomparso: “Canzone per Paolo”:
“Come questa vita è bella
e indecifrabile,
come questo cielo è grande
senza nuvole,
cosa non direi per essere il tuo calice,
cosa non darei per dirtelo…
Ma tu non mi lasciare andare via,
ma tu non mi lasciare neanche un’ora,
e questo canto sarà la mia preghiera
fratello mio
per te”.
2006: “LA NAVE DEL DESERTO” (Blond Records)
Con questo lavoro (impreziosito dalla chitarra fantastica di Chris Beya) la cifra espressiva di Mario Salis si dà in forma di musica elettronica. Qui emerge l’utilità di una formazione teorica solida, e prendono sostanza gli studi e le sperimentazioni compiuti in ambito accademico. In brani come “I’m ready” (“Sempre più grande il divario tra il padre e il figlio”), “A man born free” (“Fuori fa freddo e domani chissà / per quanto tempo questo tempo farà”) e “Per quanto tempo ancora” (“Per quanto in testa ti sia tutto chiaro / per quanto tempo ancora resterai schiavo?”) si scoprono non solo – come si vede – ripetuti richiami testuali al Divenire, ma soprattutto, sul piano compositivo, aperture armoniche catarifrangenti, che lasciano senza fiato, e dissonanze ruvide, anche vocali, su tappeti ritmici policromi, a modo loro ossessivi.
Anche in questo disco, Dylan non manca, e non manca neppure il tributo – nuovo di zecca – a piazza Navona. E’ il brano “Nave di pietra” – vero urlo d’amore per la piazza – che dura 8 minuti, ed è tutto un susseguirsi di ragnatele di immagini, di riflessi su vetri affrescati, con il materializzarsi e lo smaterializzarsi di personaggi mitologici di estrazione neo e vetero-testamentaria, mescolati per sincretismo ad altri eroi della tradizione greco/romana, in una giostra di flash che fa girare la testa, proprio come al termine di una lunga passeggiata per la magica piazza, in una sera prefestiva – con tutto il carico di umanità e di alienazione in cui ci si imbatte.
Ci sono poi due momenti acustici preziosi: un purissimo canto d’amore per una “barbona”, una homeless (“Nelly la pazza”); e quindi una delle migliori composizioni mai uscite dalla penna di Mario (un brano ispiratogli dall’istrionico e funambolico meta-poeta Antonio Bertoli), che si intitola “Mister Time”:
“Hey, mister Time,
non farmi più aspettare,
versa nettare dolce,
il sale delle alture…
Da bere dammi, che il vento
mi brucia l’anima…
E portami lontano lontano,
portami
un po’ più in là”.
Il brano “Mister Time” è fondamentale anche perché, con esso, Mario Salis, per la prima volta su disco, accede a una vocalità bassa, a una risonanza profonda, docilmente roca; una voce simile – si potrebbe dire, per facile analogia – a quella dei campioni di questo stile canoro, i Leonard Cohen, i Tom Waits, ma sarebbe banale perché in Mario agiscono influenze eterogenee – la purezza ghiaiosa da chansonnière, la verbalità romanesca, il simpatismo del canto sardo ecc. – che fanno, di questa sua voce basica, un unicuum irriproducibile. Uno strumento – in ultima istanza una tecnica – di cui Mario si servirà poi largamente, già dal disco successivo.
2009: “OLTRE”
E’ un disco veloce, con mutamenti improvvisi, repentini, di intensità e di luce. Quasi tutti gli influssi elettronici del precedente sono scomparsi. Qui Mario Salis dà la sua adesione estetica alla scuola compositiva – mistura di gallicismi maudit e mitteleuropeismo zingaro – che ha il suo antecedente nobile in Fred Buscaglione, lo zenit in Paolo Conte e la sintesi epigonale in Vinicio Capossela, e che tanti allori miete oggi in Italia e non solo. Molte canzoni del CD, in un modo o nell’altro, sono timbrate da questa presenza armonica, ma ciò accade sempre secondo una rilettura originale spiazzante, attraverso le mille invenzioni che Mario, da par suo, distribuisce copiosamente tra i solchi.
In questa direzione vanno brani come “Farfalla regina” e “Danza per me amore mio” (che è anche il singolo del disco); poi c’è “La più grande prova d’amore” che chiude il lavoro (“.. la più bella morte /sarebbe quella di morire per amore”), e quell’altra incredibile chanson d’amour: “La luce della passione” (“Un giorno all’improvviso, come un uragano / come un lampo, appare la luce della passione”); o ancora quel gioiellino delizioso, capolavoro di innocenza e di fantasia, con le sue affabulazioni assonantiche e criciverbiche, che risponde al titolo di “Astici e noci”:
“A Parigi cantano Milord,
le Regine mangiano bon bon,
che la notte è lunga da passar
sotto i ponti in mezzo al mare,
un leone nelle vene,
nel deserto una spirale,
una bomba nel mio cuore…
Per volare oltre il tempo
divento
vento
di-vento…”.
Ma tale base concettuale non si può applicare a tutto il disco. Gli altri brani, infatti, si definiscono per ben diverse – sempre eterogenee, sempre spaesanti – coloriture stilistiche. Il lavoro si apre con “Sarà l’amore”, dedicata a John Lennon. Con il secondo brano, “Profughi di stelle”, Mario Salis, quindici anni dopo “Evviva gli emigranti”, ritorna sul tema delle grandi migrazioni dei nostri tempi, abbracciando come sempre la causa degli ultimi. Del pari, tre lustri dopo “Uomini di cenere” e “Proprio come i blues di Woody” – dove fustigava i potenti e i grassatori dell’epoca di Tangentopoli – Mario ci regala una sorta di Avvelenata antiberlusconiana: “Nel viale della vergogna”, il cui ritornello dice:
“Nel viale della vergogna
c’è una ghigliottina, una forca, una gogna,
e tanti tanti tanti italiani
che hanno paura di mostrare le mani..
il Cavaliere cavalca a cavallo,
su praterie sbanca il popolo e il bello,
come un cannibale sempre il cerca di preda
ti succhia l’anima e poi risputa una pietra..”
Ecco poi il canto straziante per il popolo palestinese, “Palestina song”, che fa davvero accapponare la pelle:
“Siamo la luce e anche il suo profumo,
siamo la polvere che entra nei sandali,
la nostra strada: un mare di croci…
Per alcuni siamo figli di dio,
per altri diavoli…”
Quindi, da un paniere pieno di delicatezze, Mario estrae “Buongiorno Stellina”, limpido scorcio sulla fragilità dell’animo femminile: canzone che si potrebbe cantare a una figlia in difficoltà o a un’amica che sta soffrendo il mal di vivere.
Verso la fine si trovano sia la rivisitazione in chiave swing (c’è addirittura la citazione strumentale di “Baciami piccina”) della storica, cruda. spassosissima ballata degli anni Settanta “La noia” (“La noia / conosce solo chi imbroglia / le carte della vita… La vedo in un castello con porte dorate / boccali d’argento, tavole addobbate / e statue, dipinti di valore mondiale / vestiti ammuffiti dal grigio invernale / la vedo in una cascata di discorsi eloquenti / buoni solo a colmare dei vuoti crescenti..”), e sia la nuovissima, suggestiva, “Oltre”, che è anche la title track:
“Se guardi il fiume, oltre,
se guardi oltre il tramonto,
puoi scorgere la tua anima,
l’anima del mondo.
Se guardi aldilà della notte,
aldilà di ogni pianto,
vedrai quanta luce che resta
in fondo in fondo…
Vedrai che tutto non sembra così come appare,
apri i tuopi occhi:
basta solo guardare”.
A corollario dei tre lavori discografici ufficiali “del Salis”, bisogna ancora sottolineare che sono dischi generosi, mediamente di 15 brani ciascuno. In questo novero, certe canzoni sono riproposte più d’una volta. Se si ripetono è perché si tratta sempre di cose importanti, talvolta sono le arie storiche composte in gioventù. Così la luciferina “Nella canzone del male / Momento 25 bis” (titolo che i busker di piazza Navona semplificano in “Momento bis”), la si ritrova, in una versione letteralmente lancinante, sia nel primo che nel secondo CD. Lo stesso vale per “Uomini di cenere” e per “Terra di frontiera”. A illuminare poi tanto il secondo quanto il terzo disco, ecco la luce fulgida di “Mister Time”. E c’è anche il brano ripetuto su tutti e tre i CD, e cioè la superiore “Loro come me”.
In questa scelta iterativa, in questo martellamento tenace e testardo, si scorge una dichiarazione d’intenti che travalica il nudo dato tassonomico, le mere istanze della produzione (ogni disco sarebbe già lungo di suo, senza nessun bisogno di zeppe o aggiunte). E’ evidente, che ci troviamo di fronte a una netta rivendicazione di coerenza da parte dell’Artista, all’emanazione di un potente senso di appartenenza. Il prima e dopo, in questa produzione, sono tenuti armoniosamente insieme da un filo conduttore organico e unitario, da un intimo valore di continuità che è prova dell’esistenza, alla base di tutto, di un substrato ideale, di una fiamma originaria che mai si estingue e che, possiamo starne certi, rivedremo sfavillare anche nei lavori futuri di Mario Salis.
Mario non sta mai fermo. Da artista dotato di una propria Weltanschauung egli avverte l’esigenza di agire come un vero e proprio “operatore culturale”, diffondendo e promuovendo cose e persone che si muovono sul suo stesso terreno – che è quello della bellezza, della poesia e dell’impegno. Da promotore di cultura, Mario organizza da diversi anni lo stupefacente Festival dei Poeti “TERANOVA”,
Nelle sue edizioni più recenti, Teranova è approdato anche a Roma, con il sostegno dell’Ambasciata di Francia e con la disponibilità del Centro Culturale di San Luigi dei Francesi, che mette a disposizione del Festival i suoi locali e il teatro.
Ma l’habitat di origine di Teranova sono la città di Metz, perla dell’arte gotica, e la magica Lorena, terra di antica immigrazione e bacino minerario oggi in disuso. Il Festival consiste in questo. Ogni anno a novembre, per 4 o 5 giorni, Mario raccoglie intorno a sé un gruppo cospicuo di poeti, performers, cantautori e artisti vari che si muovono tutti insieme, un’armata giocosa e creativa. Una mattina li vedi esibirsi tra gli stucchi e i marmi della sala del Consiglio Comunale, fra le autorità politiche cittadine; il pomeriggio si trasferiscono nell’atrio rococò del museo di arte moderna; la sera fanno il loro spettacolo in un grande teatro. La mattina successiva, lo show si ripete sull’altare della chiesa dove fu battezzato il poeta Verlaine; il pomeriggio si improvvisa un intervento in una grande biblioteca, con tanto di letture volanti imposte ai semplici clienti; la sera la banda invade un pub a caso, occupando il palco del locale e improvvisando readings nelle varie sale (davanti agli occhi allibiti degli avventori e a onta delle rimostranze animose del gestore). La terza mattina, si va a tenere lo spettacolo dentro un ospedale psichiatrico dai muri verdi; il pomeriggio si prende l’aula magna della facoltà di lettere dell’Università e la sera ci si trasferisce sul palco di un centro sociale occupato e autogestito a declamare versi per i punk e i new-waver. La mattina dopo, riecco gli artisti che recitano e cantano dentro un liceo scientifico, davanti a decine di teen-agers di ambo i sessi, tutti attenti e motivati come davanti a un concerto rock, ecc..
Uno dei momenti più toccanti del Festival è lo spettacolo che si tiene “sulla strada”. Dentro una viuzza del centro storico di Metz qualcuno ha montato un baldacchino con sotto un microfono e un impianto voci. Il tettuccio di tela serve a coprire dagli umidori della sera incipiente (a novembre in Lorena non è che si scoppi dal caldo) due o tre giovani che intanto armeggiano con un computer, col quale stanno mandando la serata in diretta su una radio-web. Al microfono c’è un anziano folk-singer, che canta un vecchio folk americano. Finisce il pezzo, ed ecco un cantautore sperimentalista che prende il microfono e attacca un altro brano. E’ quasi a metà della canzone quando un portone laterale si spalanca e, al suo interno, abbagliato da una luce violentissima, si vede un uomo in mutande che, pur tremando di freddo, indica diversi barattoli distribuiti per terra, davanti a lui; spiega che dentro ci sono vernici di tutti i colori e invita a gran voce i presenti a tirargliele addosso. Ha appena finito di ricevere in faccia il contenuto dell’ultimo barattolo e, prima ancora che i flash dei fotografi possano immortalare quella vivente opera d’arte, si spalanca con gran fracasso una finestra del primo piano, vi si affaccia un poeta in preda a delirio attoriale, che si mette a declamare versi assatanati in lingua francese. Appena finisce, l’applauso dalla strada non si è ancora spento,
e dal palazzo di fronte si apre un’altra finestra al primo piano, nella cui cornice un altro attore si mette a recitare una nuova cascata di versi, ma nel dialetto di Marsiglia… e via di questo passo.
Dietro a tutto ciò, dietro ogni singolo particolare, come un regista che osserva non visto lo svolgersi della scena da lui stesso pensata e realizzata, si staglia il profilo di Mario Salis e della sua grande anima.
A uno di questi magici Festival di “Teranova” (edizione 2005, dedicata alla Beat Generation: esperienza indimenticabile), ha avuto la fortuna di partecipare anche l’umile estensore, nonché garante, e finanche testimone oculare, delle presenti note biografiche e di tutti i fatti in esse descritti.
TESTO DI FRANCO FOSCA